INTERVISTA A MAURIZIO NORIS

Che tipo di economia territoriale ha caratterizzato negli ultimi decenni il quartiere di Comenduno?

MN: Comenduno è un paese, una comunità locale, frazione del Comune di Albino, Valseriana, Bergamo e poi, sotto e in parte, come dicono i sociologi: la città infinita… una economia territoriale, fatta di piccole e medie imprese, con piena occupazione, che ha fatto ricca economicamente questa zona della media Valseriana, una trasformazione consistente, negli ultimi decenni, anche per Comenduno, di economia, di geografia e viabilità e di paesaggio: una buona fetta della sua piana sul fiume è oggi una nuova e ordinata zona industriale, che ha per tetto uno stradone…

Se l’economia industriale funziona e produce lavoro e ricchezza, il commercio e ancor meglio, quella microeconomia di relazione e di vicinato fatta di negozi e servizi, pare, da alcuni anni, segnare il passo, rimarcando un bisogno di innovazione (di processo e di prodotto direbbero gli economisti), coniugata alla qualità dei consumi e delle relazioni che nei nostri paesi si pratica. Da noi a Comenduno, la Petteni ha smesso di vendere giornali e Santalucie, però siamo il paese che, in tutta la Val Seriana, ha la più alta concentrazione di sale dedicate al gioco e la più alta spesa pro-capite in questo senso. Certo è esagerato dirlo così e appare come un fenomeno di importazione, però fa impressione e la Petteni manca al paese.


Quali risorse economiche e sociali hanno caratterizzato Comenduno nella sua identità di paese?

MN: Un paese si dà quando le persone che lo abitano sono in grado di dire e di praticare un racconto di ciò che il paese è per loro, di rappresentarlo nel senso di renderlo presente, a sé, ai compaesani, al mondo. Ho sempre pensato che il mio rapporto con Comenduno ol mé paìs, ha valore se vive di uno sguardo condiviso con i miei compaesani sulle eredità e sui lasciti delle generazioni che ci hanno preceduto e che il paese lo hanno costruito: eredità di monte (mut, Rena) di paese (Cömendü) di fiume (Sère). Uno sguardo comune di benevolenza, di cura, di posti tra noi.

L’energia che costruisce il paese e che lo rende originale e unico, a quanto ci dicono i non comendunesi, viene dalle risorse sociali e dalle persone che vivono insieme e si organizzano a fare cose che si traducono in racconto. Il secolo scorso è stato ricco di storie che hanno contribuito tanto alla identità di Comenduno: dalla nascita della Parrocchia nei primi anni ’20 voluta con una richiesta di tutti i capifamiglia della contrada, alla costruzione del chiesone, interrotta per un po’di tempo dopo le fondamenta per costruire l’Oratorio affinché ci si potesse incontrare e si potesse fare insieme delle attività “liberandosi” dal vincolo della esclusività sociale della Sciura di Villa Gout Briolini, che pur tanto ha fatto, a modo suo, per il bene del paese fino agli anni ’30; dalla consistente partecipazione alla Resistenza (i nostri partigiani, una quindicina, tutti citati sulla targa posta in fondo a Via degli Alpini che li chiama I Comendunesi), dalla Cooperativa di Consumo (la coperativa) attivata dalle famiglie comendunesi negli anni ’50, dal continuo allargamento dell’Oratorio a vocazione di comunità, la nascita del Circolo Acli e del bar che ancora adesso tutti chiamano ancora così, del Gruppo Sportivo Marinelli, del Museo Etnografico della Torre, alla fine degli anni ’80, e mi si perdoni se dimentico tanto altro, rimarcando eventi della vocazione sociale e comunitaria dei parrocchiani comendunesi.

Un paese si dà quando le persone che lo abitano sono in grado di dire e di praticare un racconto di ciò che il paese è per loro, di rappresentarlo nel senso di renderlo presente, a sé, ai compaesani, al mondo.

Tutto questo lavoro sociale, culturale, religioso, sportivo, vissuto con partecipazione e intensità, avendo in testa l’idea di paese, dice della sua identità. Senza lisciare il pelo a un becero campanilismo, è nella generatività delle sue agenzie sociali, mondi e reti socio amicali e parentali e nella vitalità delle esperienze, delle storie prodotte nel tempo, che Comenduno marca la sua originalità, e che mi consente di dire che è il paese a cui voglio bene e che mi ha aiutato a crescere. Per il resto “il paese non è ne bello ne brutto” ” dice Luigi Meneghello , “è il paese”.

Sono le persone, le persone insieme, prima ancora dei soldi, che forniscono identità e qualità della convivenza nella nostra comunità locale.

Quali sofferenze stanno stringendo il paese?

MN: Non parlerei di sofferenze specifiche del paese di Comenduno, quelle, che pur vi sono, ascrivono alla dimensione individuale o sono riconducibili a fenomeni più generali; mi pare che il paese gli fa attenzione; parlerei invece di sfide che, nelle trasformazioni avvenute e nei cambiamenti attraversati provocano l’idea di paese che i comendunesi mettono in gioco. La prima, post pandemica, dove si è misurata la rappresentazione del paese ferito nei suoi morti (mica poco, una classe di età…), e con la spina staccata della sua “energia di legame”; paese dove i portatori di energia, pur presenti in questi due anni tragici, sono provocati, sollecitati a ritessere i fili delle relazioni paesane, con la sfida di rivitalizzare frequentazioni e luoghi di incontro, sapendo, perché capito, che un paese è meglio se si racconta insieme. Il tessuto sociale, economico e cultuale della nostra realtà paesana appare, in questi ultimi decenni, in grande rimescolamento. Da una situazione di ricambio generazionale di tipo lineare, da genitori a figli che nell’ambito del paese si ricollocavano nel costruirsi la propria famiglia, si coglie un consistente ricambio sia in entrata che in uscita di nuovi nuclei familiari. Se all’inizio del secolo scorso poco meno di 100 nuclei familiari esprimevano una popolazione di 1000 abitanti oggi i nuclei familiari in Comenduno sono all’incirca 800 per una popolazione di 2500 abitanti; tutto questo dà l’idea della frammentazione e della mobilità all’interno della nostra realtà paesana, delle sfide che accoglienza, relazioni sociali e interculturali e collaborazione nella diversità, abbiamo davanti per continuare a raccontare Comenduno.

Bisognerà, prima o poi, che Comenduno, il paese, alzi un poco l’asticella della consapevolezza sul valore di questa eredità e si giochi nel suo destino e nel suo ridisegno.

La seconda, riguarda la consapevolezza del valore che hanno le eredità e i lasciti di chi ci ha preceduto, e di come si possa continuare a dire Comenduno dal Rena al Serio attraversando il paese. I cambiamenti di questi ultimi decenni hanno ridisegnato la carta geografica dei posti e degli spazi nel paese e non penso solo ai vuoti dei negozi di vicinato o ai bar che pur sono in evidenza e che domandano se c’è un modo sociale, di paese, per ridargli vita. Pensiamo al complesso oggi comunale della Villa (Gout Briolini o Regina Pacis a segónd) che è, di suo, mezzo paese storico ed a vocazione pubblica e sociale. Bisognerà, prima o poi, che Comenduno, il paese, alzi un poco l’asticella della consapevolezza sul valore di questa eredità e si giochi nel suo destino e nel suo ridisegno. Oggi il paese tiene la cura di quel che c’è, ed è molto. Sarebbe bello se Comenduno si facesse promotore di una Fondazione sociale comunale che promuove il rinnovamento di questa avvalorata storia di sè.

Ci è cresciuta la ricchezza, certo, anche l’urbanizzazione, la popolazione, il traffico, la nostra personale relazione con il mondo. In questi tempi di pandemia ho compreso, come penso molti compaesani, che i sentieri sul Rena sono un segno di paese. Chi li cura fa bella politica ed è termometro dell’eredità montana comendunese: che abbia sempre parola.

*Crediti fotografici: Samuele Editore

Da Vienna i Komendunesi

Di Marcello Conca

È stato nel 2009 che Valerio mi invitò per la prima volta a far parte del gruppo del Museo della Torre ed è stato il 2018 l’anno in cui mi sono sentito pronto ad accettare questo invito. Se nel 2009 le mie giornate si dividevano tra liceo e conservatorio, nel 2018 Valerio ha saputo cogliere in me il desiderio de fa’ ergot, in qualche modo di tornare a “vivere Comendü”. Infatti, al di là dei motivi musicali che mi hanno portato a Vienna, l’esperienza di poter vivere in questa città europea è stata per me un intenso percorso di riflessione interiore, in cui ho potuto realmente comprendere la profonditá e l’importanza delle mie radici comendunesi. Il fiuto manageriale di Valerio è stato in grado di riconoscere in me questo attaccamento e la sua capacità da Presidente di intrecciarlo e tesserlo con l’attività del Museo, tramutandolo così -come già formulato nel 2019 da Tosca Finazzi- in una “nostalgia attiva”. Da abile malleatore – lavoratore del maglio -, Valerio ha raccolto così nuove energie e materie prime, convogliandole ed amministrandole per il Museo della Torre.

Tra le novità sostenute durante la Presidenza di Valerio, l’esperienza dei Komendunesi è stata l’iniziativa di maggiore portata, che ha stimolato il Museo con tutti i suoi soci e Comenduno ad una grande mobilitazione. L’accoglienza, l’ospitalità, la musica, le relazioni, il formaggio del Battista e del Giancarlo, il movimento insieme hanno reso Comenduno un palco su cui la storia Comendunese ha potuto incontrarsi e raccontarsi di nuovo, anche ad occhi europei.

In generale, i festeggiamenti del trentennale hanno permesso alla vocazione etnografica del Museo di trovare la spinta per proiettarsi a nuovi futuri orizzonti. Il grande merito della Presidenza di Valerio è stato l’interpretare e il gestire questo giubileo non come un traguardo, ma come un nuovo punto di partenza. Tutto il lavoro per la costituzione della nuova Associazione del Museo – con nuovi soci e nuovo statuto – rientra nella visione a lungo termine di una Weiterentwicklung (una evoluzione ulteriore) iniziata nel 2019. Le Frosche, il lavoro riguardo la Filanda, la sontuosa ricerca del “Tesoro sotto i nostri piedi” e l’esperienza dei Komendunesi rappresentano il frutto di un’attività culturale volta non solo alla collezione e manutenzione del nostro passato, bensì di un’attività associativa concentrata in prima linea  sull’interpretazione del presente in cui viviamo e in seconda sulla provocazione di essa, che ci stimola al cambiamento: come individui e Comunità.

Il grande merito della Presidenza di Valerio è stato l’interpretare e il gestire questo giubileo non come un traguardo, ma come un nuovo punto di partenza.

Prova tangibile di questo scatto è il progetto de “La Voce nel silenzio” e l’attenzione da esso suscitata. Merito dell’organizzazione da parte del socio Diego Vedovati e frutto del lavoro di squadra di tutti gli altri Soci, questa raccolta ha spinto il Museo in una dimensione totalmente nuova rispetto ai mezzi usati fino ad ora: internet. Poter essere parte di un gruppo così dinamico rappresenta per me, oltre che una bella storia di appartenenza, un grande onore. Un gruppo, alla guida del quale mi auguro un nuovo Presidente, che sia, nelle sue proprie qualità e capacità, attivo e presente sostenitore e sostenuto da tutti.

Parecchi sono i progetti in cantiere per i prossimi anni, tra cui una nuova edizione dei Komendunesi. Corona situazione permettendo, cercheremo nel 2021 di riportare i Komendunesi a Comenduno, con l’obiettivo di riconfermare e consolidare il “palco europeo” che abbiamo iniziato a costruire nel 2019, di cui Valerio e tutti noi siamo molto fieri. Così come piaceva definirla a Valerio, la “Calata dei Komendunesi” non si ridurrà ad un’esperienza musicale o all’arrivo degli amici del Marcello, bensì ad una sfida di accoglienza, di partecipazione, di spiritualità e di scambio all’interno del Museo e della comunità di Comenduno, in qualità di Paese, piccolo attore in Europa.

La scomparsa di Valerio non riguarda solo la storia del Museo, ma tocca anche la mia storia personale, perché anche io sono cresciuto giù, lì al maglio. Come riportato nel messaggio ufficiale del Museo, ciascuno di noi terrà con sé il proprio ricordo di Valerio. Oltre ai tanti ricordi, porterò nei suoi confronti la grande riconoscenza per avermi dato la possibilità di ricongiungermi al mio Paese. Una ricongiunzione che mi ha permesso di cominciare a restituire alla comunità in cui sono cresciuto e alla quale appartengo il mio apporto.

Oltre ai tanti ricordi, porterò nei suoi confronti la grande riconoscenza per avermi dato la possibilità di ricongiungermi al mio Paese. Una ricongiunzione che mi ha permesso di cominciare a restituire alla comunità in cui sono cresciuto e alla quale appartengo il mio apporto.

Una possibilitá che ha finalmente tradotto in pratica questo istinto lavorativo volontario e comunitario insito in me, tramandato nell’anima delle mie famiglie Noris, Conca, Vedovati, Belotti, Camozzi. Una riconoscenza che insomma non puó farmi stare fermo né zitto, anzi! Quindi, ancora grazie Valerio!


Tutto è potuto accadere ed accade forse perché Valerio mi conosceva, forse perché ci ha semplicemente creduto, forse perché ho cominciato a crederci anche io, forse perché semplicemente è una storia non solo mia e perché continueró a raccontarla al Museo, insieme a tanti di Voi.

Grazie a voi per aver letto questo articolo, al Don e alla redazione del Bollettino per la disponibilità e a tutte le socie e i soci del Museo.

Sti sö fránch!

Per sentirle, ascoltarle, per cantarci in compagnia

Di Silvia Arzola

Smuovere voci, desmöestà us, per sentirle, ascoltarle, per cantarci in compagnia, tesse, di una trama e un ordito primario mi rendo conto, l’esperienza della mia vita. Si campa con lo spirito e con l’energia; più spirito nel lavoro di poesia e di destino, più energia pratica nello smuovere voci che raccontano, o giovani d’Europa che suonano musica antica nel mio paese o per cantare con i miei fratelli le tante canzoni che trascendono, sublimandolo, il lessico familiare……

Anche nel gioco, impegnativo, di questa rubrica, il titolo di questo numero è il tema. Le Desmöestade us de ruch (Smosse voci di ronco) trovano la loro tessitura con le desmöestade us del Fèro che legge questa poesia, e l’intenso e acuto commentare di Silvia Arzola. Fèro lo conosciamo; è, quella di Silvia, öna us che le corrisponde in sentimento, un bel raccontare limpio e a schiena dritta. Le sono riconoscente per questo sentito che ci regala.

Smosse voci a marcare parole.

DESMÖESTÀDE US DE RUCH

Ol ligurù ’l gh’à us de calsìna,
sömèlga érda
a ralèntadùr
sö ’l biancùr möestàt di gére
e ön invìs
de ciarèla larga
e de sul
domestegàt,
tra bósch
e roére.

La esübes la sò, la bólp,
ma de rar,
cua de ram
tüso la vérgola de ö ’nsògn,
sgherebéss del sangh
sö la coèrta pigra
de stram.

Chèla del fuì
l’è ’l cridà de l’assènsa
sö i pène spantegade,
solènga us
de ömbréa e de lösénga
us de cüràm.

E ’l polér
de l’ànema
ö rotàm.

SMOSSE VOCI DI RONCO

Il ramarro ha voce di calcina
fulmine verde
al rallentatore
sul biancore mosso di ghiaie
e un desiderio
di radura larga
e di sole
addomesticato,
tra bosco
e smottamenti.

Esibisce la sua, la volpe,
ma di raro,
coda di rame
come la virgola di un sogno,
sghiribizzo del sangue
sulla coperta pigra
di strame.

Quella della faina
è il grido dell’assenza
sulle penne disseminate,
solinga voce
di ombra e di lusinga
voce di cuoio.

E il pollaio
dell’anima
un rottame.


Mi capita, sempre più spesso, di ritrovare nella voce espressioni dialettali che non sapevo di custodire. Sono suoni (madre, padre, zii e zie, nonne) che accendono all’improvviso il parlare, rapprendendosi in immagini del tutto precise: quella ‘sfumatura lì’ non potrebbe trovare altra rappresentazione. Quella ‘sfumatura lì, ‘del resto, ha una sua ragion d’essere nel contesto emotivo che l’ha appena generata. Sono io quel contesto emotivo e nulla mi vincola al concetto di ‘radice’ quanto la lingua. I panorami mutano di continuo e gli odori sono troppo vaghi e sentimentali: i dialetti invece, per quanto cangianti e ormai impoveriti, ancorano, prima che a luogo geografico, a uno spazio biografico. Almeno per quanto riguarda me; per quanto riguarda Maurizio Noris, tempo biografico e toponomastica affettiva si modellano vicendevolmente ‘dentro’ la lingua, e il dialetto si fa laboratorio: ponte di traduzione esperienziale.

I panorami mutano di continuo e gli odori sono troppo vaghi e sentimentali: i dialetti invece, per quanto cangianti e ormai impoveriti, ancorano, prima che a luogo geografico, a uno spazio biografico.

Un dialetto che viene dal ‘ruch’, (come titola la raccolta) forse a giocare sull’ambiguità semantica della parola italiana: ronco, come il murmure rasposo nei polmoni, come il viottolo cieco o come, nello specifico bergamasco, lo slargo strappato al bosco sopra i terrazzamenti. Ecco, Us del Ruch è tutto questo; un raspare nel profondo, tanto sul piano sonoro (quel suono secco e insieme denso del bergamasco delle valli) che su quello esistenziale; una vicolo stretto e talvolta cieco di prospettiva; un’apertura strappata alla continuità del bosco. Una ‘lingua padre’ (carica di affetti e fatica) che procede in una specie di guerriglia: corpo a corpo con una terra che si lascia amare con reticenza e plasmare a malapena. Guerriglia in cui le vittorie sono epifanie o tregue congelate in uno scatto di luce, come quando la natura tutta (organica e inorganica) assume per un attimo colori simbolici per cederli poi, di nuovo, al loro universo indecifrabile.

Emblematica di questa cifra (non certo l’unica di questa raccolta) mi pare Desmöestade us de ruch, Smosse voci di Ronco. Le ‘voci’ come spesso capita nelle poesie di Noris sono graffi e segni: resi anche cromaticamente. Il ramarro, una saetta verde che vorrebbe guizzare verso una radura dal sole facile, ma procede al rallentatore, quasi impastoiato dal suo stesso urlo abrasivo (di calcina): la sferza fulminea del verde che contempla la propria inadeguatezza, sul biancore della ghiaia, dentro un grido implosivo. Dinamismo e staticità: falso movimento. Quel ramarro resta imbalsamato nella percezione come forma dell’irrequietudine impotente.

E poi il rosso quasi aristocratico della volpe: una voce più che mai cromatica. Un segno ineffabile, tra il sangue e i baluginii del rame. “Virgola di un sogno” (“vérgola de ö ’nsògn“) sulla coperta dello strame. Anche qui un elusivo sogno di dinamismo abita il ruch, un fantasma enigmatico che si fa notare per la sua prevalente assenza. E di nuovo si osserva, o meglio si percepisce acutamente, la tensione tra movimento (libertà della volpe) e la passività (immobilità) dello strame che di quel movimento trattiene giusto l’impronta capricciosa (“sghiribizzo del sangue” – “sgherebéss del sangh“).

Fino a qui, una fantasmagoria vivente di colori che serra organico e inorganico, attivo e passivo, in un quadro ancora aperto. Ma a chiudere ci pensa la faina: la faina che non ha colore se non quello del cuoio nella voce. Ombra e lusinga (“solènga us de ömbréa e de lösénga“) circondata di piume – impalpabili trofei – grida l’assenza così come la volpe la ‘significava’ graficamente. E in questo urlo grigio veniamo traslati verso il rottame abbandonato del pollaio. Anima deprivata, quel ‘ polér de l’ànema (ö rotàm) vibra appena, ma per un tempo che sembra inconcluso, all’urlo della faina. Tempo inconcluso, si è detto, che sospende la vita nel ruch impedendo al ramarro di saettare (se non grevemente), alla volpe di palesarsi, al lettore di sfuggire all’intensità pur dolorosa di un quadro in cui colori simbolici e naturalità (cruda e luminosa) si fondono in un’unica voce poetica.

Silvia Arzola, cremasca, vive tra Milano e la pianura pavese. Laureata in Filosofia Estetica, è scrittrice, traduttrice, consulente editoriale; ha scritto di letteratura e di cinema su numerose riviste. Bella persona.

Di Valerio Calvi

Le notizie che fanno presa son quelle che hanno un risvolto negativo e tra queste compare ogni tanto il problema dei “giovani cervelli in fuga”, di solito rispuntano quando c’è scarsezza di notizie da proporre; servizi preconfezionati al pari dei consigli che ci vengono propinati per come difenderci dal caldo in estate e dal freddo in inverno. In questo momento non c’è spazio le informazioni: troppo impegnati tutti i TG e giornali per seguire le giravolte politiche da un po’ di tempo a questa parte. Ma è poi vero che sia un problema per i giovani e non piuttosto un desiderio loro di crearsi esperienze fuori dal proprio paese? Per loro non esistono barriere, dogane da superare o condizionamenti dovuti allo sconvolgimento che ha percorso l’Europa nella prima parte del secolo scorso. Il problema della lingua non è più un ostacolo: l’impressione è che ai giovani stia stretto il concetto di stato o nazione e pensino più ad una Europa veramente aperta ed unita.

I giovani italiani gradiscono andarsi a costruirsi esperienze fuori dall’Italia, ma quanti altri cittadini europei e non solo fanno altrettanto scegliendo l’Italia, che di certo ne ha di cose da proporre: storia, arte, paesaggi, moda, cucina, vino, formaggi e molto ancora. Non ci aspettiamo risposte ne ci preme andare a consultare dati statistici ove venga mostrato il saldo tra entrate o uscite dei giovani nel nostro paese. Piuttosto vorremmo soffermarci sull’idea di Europa vissuta a Comenduno la scorsa settimana, grazie a Marcello Conca, un “cervello” che vive da qualche anno a Vienna per studio e lavoro, che un anno fa ha accettato l’invito dell’Associazione per il Museo etnografico, perché condividesse la realizzazione di un progetto per il trentennale.

Si è preso talmente a cuore la possibilità di rendersi utile per il “paesello”, come ama lui definire Comenduno, che ne è diventato il maggiore protagonista a dispetto della distanza che ci separava, già da luglio con una sorprendente rappresentazione di “L’Elisir d’amore” di G. Donizetti, per poi regalarci una favolosa settimana di musica antica. A volte ritornano e nel caso di Marcello s’è trattato di qualche cosa di veramente insolito, unico, non solo per Comenduno: un festival di musica antica offerta da giovani musicisti professionisti, provenienti da Austria, Polonia, Spagna, Ungheria ed Italia, messisi in gioco non certo per ambizioni o denaro (solo un piccolo rimborso riconosciuto loro per il viaggio), dedicando una buona parte delle loro vacanze, accettando per chissà quanto tempo i martellamenti di Marcello per convincerli e prepararli a questa calata dei “Komendunesi”.

Così si son voluti chiamare: un legame tra loro ed il territorio che li avrebbe ospitati con la sola eccezione di una “K” al posto della “C” semplicemente per rimarcare l’aspetto Europeo del progetto.

Marcello, oltre che leader al limite della tirannia nel gruppo, ha programmato per loro una serie di mini concerti nell’arco della settimana facendoli esibire in luoghi sempre diversi di Comenduno, facendo spostare un seguito che mai avremmo immaginato. Un maestro nel presentare musica, un manager nell’organizzazione logistica, ha saputo sistemare gli alloggi e offrire loro vitto per i 18 ragazzi, senza far gravare su noi i costi e questo grazie anche al coinvolgimento e disponibilità della parrocchia con Don Alfio che ha garantito uno straordinario appoggio.

Una settimana già partita con il botto al loro arrivo lunedì, consegnata la tessera di “socio Komendunese del Museo” una coccarda con i colori d’Europa, conoscenza dei loro nomi a volte per noi impronunciabili, le loro provenienze, la visita al Museo e al maglio ed un semplice buffet conviviale in cui ancor prima di sentirli all’opera con i loro strumenti, siamo stati presi dal loro entusiasmo, al punto di dubitare che fossero musicisti professionisti. Il sentire le diverse lingue che si intrecciavano dal tedesco lingua del luogo in cui studiano – Vienna – l’inglese soprattutto e la traduzione in italiano da parte dei Komendunesi italiani (noi qualche parola in bergamasco gliel’abbiamo messa li).
Anche noi abbiamo dimostrato capacità internazionale: Franco Innocenti li ha condotti nella visita al Museo con un fluente inglese. L’impressione sin dall’inizio è stata che per loro questa esperienza sia partita per l’amore per la musica ma anche da un desiderio di condividerla con i comendunesi, quelli con la “C” e quanti hanno saputo cogliere l’occasione di visitare Comenduno. Quando ce ne parlò Marcello temevamo che questi ragazzi professionisti potessero rimanere delusi, per l’ambiente di Comenduno, perché lui ha preteso che tutto avvenisse qui, ed ancora timorosi perché loro abituati a platee importanti in giro per l’Europa, si trovassero ad offrire musica di fronte ad un piccolo pubblico.

L’impressione sin dall’inizio è stata che per loro questa esperienza sia partita per l’amore per la musica ma anche da un desiderio di condividerla con i comendunesi, quelli con la “C” e quanti hanno saputo cogliere l’occasione di visitare Comenduno.

Ora abbiamo compreso l’intento di Marcello: la musica innanzi tutto. Rimanere concentrati sulle esibizioni e sulle prove, per così tanti eventi, non avrebbero fornito spazio a distrazioni, se non quelle un po’ goliardiche tipicamente giovanili. Quando ci siamo salutati sabato al parco Martinelli abbiamo notato qualche lacrimuccia e raccolto parecchie confidenze su come Comenduno ed i comendunesi rimarranno nei loro ricordi, tanto che una promessa è già stata fatta: questa non rimarrà l’unica esperienza, e qui contiamo molto su Marcello e speriamo che riesca ancora a farci rivivere i brevi momenti delle riflessioni, le magiche serate di Abat-jour nei “ruc”, l’intreccio tra canti nostri e loro, le “marènde” le degustazioni dei nostri prodotti locali, fino al concerto d’insieme nella Chiesa di Cristo Re venerdì 30 agosto davanti ad una platea inattesa per qualità e quantità.

Magico e commovente il regalo finale che ci hanno offerto – “Signore delle Cime” – preparata da loro nel giro di due ore. Certo che questo “cervello” in fuga ne ha messe assieme tante, al punto che quasi è passata inosservata l’esibizione del concerto di circa 50 elementi tra musici, lirici e coristi dell’”Ensemble Locatelli” che ci hanno onorato e deliziato per quasi un’ora prima dell’inizio della SS. Messa per S. Alessandro. Un programma variegato ed inizialmente difficile da comprendere anche per noi che avevamo ricevuto spiegazioni da Marcello Conca, partito in sordina e che pian, piano abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare. Tante le persone venute da fuori per sentire musica antica, alquanto soave; di certo degno pubblico per la ricorrenza più importante della nostra Parrocchia nella festa del patrono S. Alessandro.

Riprendendo il discorso sui giovani, la collaborazione con Marcello e i giovani Komendunesi ha avuto successo e fornito grande visibilità all’associazione ed al Museo; ma non è l’unico caso in cui siamo stati ricambiati dalla collaborazione da giovani. In occasione del ventennale Andrea De Virgiilis organizzò un grande concerto nella parrocchiale; qualche anno dopo Marco Noris, ora in Giappone per lavoro, ci propose una mostra di opere realizzate da suoi compagni di studio presso la Brera di Milano o l’Accademia Carrara non a caso come titolo scegliemmo “letamatura”. Cinque anni fa, in occasione del venticinquennale, fu costituita una commissione di giovani per studiare gli eventi da proporre, mentre un’altra giovane comendunese Francesca Signori già stabilmente a New York per lavoro, collaborò con noi per produrre l’intera grafica dei i nuovi allestimenti museali e proponendoci il logo che da allora ci identifica come Museo.

Ancora, lo scorso anno i ragazzi del Romero, preparati da Franco Innocenti, si son dimostrati valide guide nello spiegare i contenuti della mostra “Un tesoro sotto i nostri piedi” ancora oggi esposta presso La Casa del Capitano a San Vigilio in città Alta; loro stessi guidarono alla visita al museo alcuni studenti russi, realizzando per quell’occasione un filmato in lingua italiana ed inglese. Quest’anno altri ragazzi del Romero guidati dai loro insegnanti hanno preparato tutta la grafica per i vari eventi del trentennale ed elaborato il nuovo logo per l’associazione. Giovani, musica, Komendunesi, Europa, scuole, ma ancor più vicinanza ed affetto. Mai come in questo periodo abbiamo sentito vicinanza, ci sentiamo meno soli e questo ci conforta nel continuare in quello che i fondatori seppero fare per oltre trent’anni: sta a noi mantenere vivo il Museo e l’interesse che gli si è creato attorno. Sappiamo che non è facile, i musei etnografici non brillano per frequenze: qualche scuola arriva a farci visita, quanti lo visitano difficilmente vi ritornano se non se ne offre un’occasione. Quanti ancora anche di Comenduno ne conoscono l’esistenza?

La partecipazione alle “frosche al mai ed in Vila” il racconto de l’Elisir, la serata dedicata alla nascita dell’associazione per il Museo con mattatore il presidente Onorario Enrico Belotti; i canti e racconti delle filandere ed infine la settimana dei Komendunesi e l’Ensemble Locatelli ci hanno convinto che di amici il Museo ne ha. Questo senz’altro serve come ricarica di entusiasmo anche per i volontari che collaborano attivamente – ne hanno dovuto fare di straordinari, specie questa settimana impegnati su più fronti. La partecipazione e l’attenzione ricevuta li incoraggerà per i prossimi eventi; primo dei quali la mostra in programma a fine settembre: “…E lé la và in filanda…” preparata per mesi con vari studi e ricerche da Giampiero
Tiraboschi; rimarrà esposta fino a Natale, l’evento stesso sarà accompagnato da altre due occasioni d’incontro collaterali e non mancherà un’altra sorpresa del nostro “cervello in fuga Marcello Conca” a fine ottobre.

Vi terremo informati con le solite cartoline, seguiteci e rimaneteci vicini.

ARTICOLO DELL’ECO DI BERGAMO

Diciotto giovani musicisti, provenienti da mezza Europa, specializzati nello studio della musica antica, sono convenuti per una settimana a Comenduno di Albino, per celebrare il trentennale dell’Associazione del Museo Etnografico della Torre. Sono i «Komendunesi», con la kappa, a significare quest’apertura europea e la comune
provenienza dal Muk (Musik und Kunst Privatuniversität der Stadt di Vienna).

La settimana di festeggiamenti, iniziata lunedì, culmina oggi, dalle ore 19,30, con un concerto conclusivo nella chiesa parrocchiale di Cristo Re (al termine, possibilità di cena in oratorio). «Siamo tutti studenti del conservatorio di Vienna » spiega Marcello Conca, organizzatore della manifestazione, giovane suonatore di fagotto, cresciuto a Comenduno, diplomato al conservatorio di Bergamo, ora specializzando al Muk, che «ha una sezione dedicata all’approfondimento della musica antica. Una fetta importante degli studenti di tale sezione ha accettato l’invito. Stiamo eseguendo, dal 26, una serie di brevi concerti. Oggi, per la prima volta, suoneremo tutti insieme».

Il festival Komendunesi nasce nel 2019 per dare vita a incontri musicali, divulgativi e culturali a Comenduno (BG), in collaborazione con il Museo etnografico della Torre.
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